
Salve dottor Mercadini, sono Yichi.
I linguisti più intraprendenti hanno fatto notare come non si dovrebbe dire “il” COVID-19, ma “la” COVID-19, trattandosi di una malattia, quindi di una parola femminile.
Nessuno però mi sembra si sia reso conto del fatto che quel nome lì, “COVID-19”, è una denominazione internazionale che ha senso in ambito specialistico: come chiamare il cavallo “Equus caballus”.
Ha senso usare delle denominazioni scientifiche nel linguaggio comune? in particolare dal momento che non si tratta mai di nomi pensati per la comunicazione quotidiana.
O è invece preferibile usare degli acronimi eufonici? ad esempio “malcordinova” al posto di “Covid-19”: “MALattia da CORonavirus DIcianNOVe”.
“Malcordinova” non è un nome più poetico di “COVID-19”? che evoca fin nel suono la natura della malattia ed è più facile da ricordare per le future generazioni?
“Malcordinovo” sarebbe invece il nome del “SARS-CoV-2”, come il “siresmorio” sarebbe il “MERS-CoV” e il “siresagro” sarebbe il “SARS-CoV”.
Insomma, da un lato la scienza oggi crea così tanti termini che la lingua fatica a starle dietro e a metabolizzarli tutti.
Ma dall’altro lato è vivo il bisogno della gente di usare i termini corretti, che però risultano troppo astrusi e indigesti, proprio perché non digeriti dalla lingua.
Dobbiamo lasciare le cose come sono ora o è preferibile inventare un algoritmo convenzionale per convertire i termini scientifici in parole chiare, semplici, precise e belle?
Pongo a lei questa domanda perché è una persona di spirito e perché è imparziale, dal momento che ama tanto la poesia quanto la nomenclatura scientifica.
Grazie e buona giornata
Roberto Mercadini è attore e autore di monologhi, poeta e scrittore.
Puoi ascoltare i suoi interessantissimi monologhi (i cui argomenti spaziano dall’arte alla fisica, dalla biologia all’ebraistica: tutte affrontate con piglio filosofico) sul suo canale Youtube: https://www.youtube.com/c/RobertoMercadini
Tra i suoi libri più recenti puoi leggere:
• “Storia perfetta dell’errore” (Rizzoli, 2018);
• “Bomba atomica” (Rizzoli, 2020).
La risposta di Roberto Mercadini
Salve!
Grazie per la domanda molto interessante. Molto interessante la questione che lei pone.
Dunque, provo a risponderle.
Dunque, lei dice: “Ha senso usare, nel linguaggio comune, una denominazione scientifica? E quindi chiamare questo virus “COVID-19”? Non è come se noi, parlando comunemente, pretendessimo di chiamare il cavallo “Equus caballus”? O, a tavola, chiamassimo il pomodoro “Solanum lycopersicum” e il cavolo “Brassica oleracea” eccetera?
Dunque, provo a rispondere, provo a rispondere in modo ordinato.
Allora, il problema è che la questione è ancora più complicata di così; è ancora più complicata di così nel senso che “COVID-19”, in realtà, non è il nome scientifico del virus, non è come “Equus caballus” o “Solanum lycopersicum”.
Perché il nome scientifico del virus esiste ed è fatto come tutti i nomi scientifici di tutte le piante e di tutti gli animali; è il nome del genere seguito dal nome della specie. Possiamo andare a vedere qual è. Non sono riuscito a impararlo a memoria: lo leggo.
Allora, il genere è Betacoronavirus, la specie è SARS–related coronavirus, quindi “coronavirus collegato alla SARS”.
Caso rarissimo: non mi era mai capitato che il nome di una specie fosse, o almeno avesse, parti in inglese, invece di essere completamente in latino, come tutti i nomi scientifici.
Quindi, il nome, scientifico, è genere seguito dalla specie, quindi in questo caso sarebbe non “COVID-19”, bensì: “Betacoronavirus SARS–related coronavirus”.
È, insomma, di gran lunga troppo complicato perché possa entrare nella comunicazione comune, ordinaria.
Allora, però, “COVID-19” non è neanche il nome, come dire, comune, popolare — diciamo così — del virus.
Perché: perché qual è il nome popolare, il nome che si crea spontaneamente, di un virus, di una malattia?
Lo sappiamo, lo sappiamo dal passato: è un nome che prende il luogo di presunta diffusione, o di diffusione reale della malattia.
Esempio. Esempio: l’influenza spagnola, l’influenza spagnola che ha devastato il mondo fra il 1918 e il 1920, e appunto si chiama così: “l’influenza spagnola”, o, più comunemente, “la spagnola”. “Di cosa è morto? È morto di spagnola”.
Ma io ricordo che in tempi più recenti, quando io ero bambino, ci fu una… così, la diffusione di una influenza stagionale che era stata chiamata “la cinese”, perché veniva o si pensava che venisse dalla Cina.
E quindi: “Cosa ha fatto? Ah, la cinese”, “Sta male? Sì, ha la cinese”… Ricordo anche battutine così, un po’ sciocche: “Dov’è andato Mauro? Non è venuto?” “No, è a letto con la cinese” “Ah, beato lui!” Ecco.
Faccio un altro esempio: ebola, il virus ebola. “Ebola” è il nome di un fiume in Congo. Ok? Ok.
Esisterebbe in teoria un nome spontaneo, un nome popolare, del covid, ed è “polmonite di Wuhan”, “polmonite di Wuhan”. Non si usa, non è entrato nell’uso comune; ma è meglio che non sia entrato nell’uso comune, lei capisce.
Lei capisce che non è bello, non è conveniente, associare una malattia a un luogo, e quindi alle persone che abitano in quel luogo, incolpevolmente.
C’è già troppa stupidità razzista nel mondo, c’è già troppa violenza xenofoba: meglio non dare altri appigli.
Anche perché io mi ricordo bene che all’inizio della pandemia, forse in marzo, ecco, era successo in una città italiana, non mi ricordo esattamente quale, che un passante avesse aggredito delle persone di origini asiatiche, dicendo loro: “Andate via! Andate via da qua! Tornate in Cina! Ci fate ammalare tutti! Tornate a casa vostra a portare le malattie!”
Allora, anche per evitare questo tipo di follia, queste espressioni di violenza e di ignoranza qui, meglio non dare corso al nome popolare.
E allora cos’è successo: è successo che l’Organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato, ha proposto, agli scienziati e ai giornalisti, un nome creato appositamente; che non è un nome comune, spontaneo, non è un nome scientifico, è un nome fatto apposta per girare per il mondo: “COVID-19”; che è un acronimo.
È un acronimo: “COVID-19” sta per “COrona” “VIrus”, “D” sta per “Disease”, quindi “malattia”, “19” perché è stato nel 2019, anzi il 31 dicembre, l’ultimo dell’anno, il 31 dicembre del 2019, che il virus è stato osservato per la prima volta nella storia.
Allora, anche l’algoritmo che propone lei genera degli acronimi e, in questo caso, no, seguendo il suo metodo, il suo algoritmo, anziché “COVID-19” potremmo dire “marcondinova”.
Allora, la sua proposta è molto ingegnosa, molto ingegnosa. È molto ingegnosa, mi è piaciuta.
Ha però, come dire, un punto debole: “marcondinova” è un nome italiano. Cioè, non è una parola italiana in senso stretto, nel senso che l’ha creata lei, quindi non esiste ancora nel dizionario del lessico italiano; ma morfologicamente, come suono, come struttura, è una parola italiana.
Allora cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire che noi italiani dovremmo usare “marcondinova”, gli inglesi dovrebbero usare una loro parola, i tedeschi una loro parola, i francesi… Allora dovrebbe esistere un algoritmo diverso per ogni nazione.
Mentre un termine come “COVID-19”, che, ripeto, non è né scientifico né popolare, è fatto apposta per essere internazionale; non assomiglia a nessuna parola di nessuna lingua, non corrisponde morfologicamente a nessuna lingua perché deve essere internazionale.
È un caso unico? È un caso anomalo?
No, non è un caso unico, è una cosa che si fa. Si fa anche fuori dall’ambito sanitario, dall’ambito delle malattie.
Le faccio un esempio, le faccio un esempio: quando si è deciso di commercializzare un nuovo materiale plastico, sintetizzato dal grande chimico italiano Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, ci si è trovati di fronte a questo materiale che si chiamava, anzi si chiama, tecnicamente, “polipropilene isotattico”.
Ora, è un materiale utilissimo, perché ha cambiato la vita delle persone — bacinelle, vasi, secchi, giocattoli… oggetti di ogni tipo —, fatto con questo materiale, questa plastica; è una plastica straordinariamente resistente, straordinariamente capace di tenere la forma, capace… capace di prendere qualsiasi forma, insomma, meraviglioso.
Bene, naturalmente non si poteva pensare che le persone, comunemente, usassero il termine “polipropilene isotattico”.
Allo stesso tempo non esisteva un nome comune, popolare, perché non ha fatto in tempo la lingua a inventarsi un nome per quella roba lì; anche perché, se tu non sei un chimico, a occhio, a tatto, non sarai mai in grado di distinguere il polipropilene isotattico dagli altri tipi di plastica (dal polipropilentereftalato, dal polietilene ad alta densità… dal polivinilcloruro), non è possibile.
Quindi, non c’è la possibilità che si coni un nome popolare, ma non c’è la possibilità di usare il nome scientifico che è troppo complicato.
Cos’è successo? È successo che il produttore, la Montecatini, questa industria che aveva sintetizzato il materiale, ha creato un nome commerciale: un acronimo! Un acronimo come “COVID-19”, come “marcondinova”: “Moplen”.
“Moplen”: “Moplen” stava per “Montecatini”, “p” per “propilene”, “len” per… sì, “p” per “polipropilene” (“p” “p”: una delle due “p”) e “len” per “polipropiLENe”. Ok, “Moplen”.
Dopo di che lo ha commercializzato con questo nome qui: un nome commerciale.
Nome commerciale: c’erano le pubblicità negli anni ’60: “E mo’? E mo’? Moplen!” C’erano gli slogan: “Ma signora guardi ben, che sia fatto di Moplen”. Ecco.
“COVID-19” è la stessa cosa: è un nome artificiale, un nome creato appositamente, che è internazionale, come “Moplen”.
Allora, qui però la questione è molto interessante, perché? Perché sta succedendo una cosa che nei secoli passati non esisteva. Cioè, se io prendo Dante: questo è il suo trattato sulla lingua italiana, sulla futura lingua italiana, il “De vulgari eloquentia”, “Sull’eloquenza del volgare”.
Per Dante esistono due lingue: esiste la lingua colta, quella che noi chiamiamo “latino” e che lui chiamava “lingua grammatica”, ed esiste la lingua corrente, la lingua popolare, che lui chiamava “volgare”.
Oggi, noi, siamo di fronte a una situazione più complessa: esistono i termini scientifici, esistono i termini popolari, ed esistono dei termini artificiali, fatti per la comunicazione globale; cioè, esiste la parola “Betacoronavirus SARS–related coronavirus” — sarebbe il nome scientifico —, esiste il nome “influenza di Wuhan”, che sarebbe il nome popolare, esiste “COVID-19”.
Se dovessi fare un paragone, è un po’ quello che è successo alla musica — paragone forse un po’… —.
Nella musica un tempo esisteva la musica popolare, cioè quella fatta da musicisti non professionisti, con strumenti artigianali, rimediati, la musica classica, e basta.
E magari la musica classica prendeva ispirazione dalla musica popolare, no? Come ha fatto… non so, tanti compositori che fanno… hanno fatto rapsodie, danze ungheresi…
Oggi non siamo più in quella condizione lì: non esiste più la musica popolare e la musica classica soltanto, ma esiste anche la musica pop, che non è la musica popolare, che è la musica creata dall’industria musicale, dalle grandi major eccetera, non so se mi spiego.
Ma le cose sono ancora più complicate di così perché uno può fare il cantautore alternativo che non è né popolare né pop né classico, però vabbè, non so se mi spiego.
Ecco, questa è l’essenza di quella parola lì, è il motivo per cui viene usato.
Credo che questo tipo di linguaggio, di parole, sia destinato — potrei sbagliarmi, forse vorrei sbagliarmi —, ma credo che sia destinato a prendere sempre più piede, così come nel mondo ha sempre più preso piede la musica pop, diventando più diffusa della musica classica e della musica popolare.
Ecco, spero di aver risposto in modo esauriente.
Grazie per aver posto una domanda così interessante e così profonda, che richiedeva una riflessione attenta.
La risposta di Davide Carretta alla questione
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