Intervista a J. Jesús Esquivel

Los narcos gringos ” di J. Jesús Esquivel

Oltre ad essere giornalista, sei anche un analista politico, uno scrittore e hai lavorato in diversi programmi radiofonici e televisivi. Potresti spiegare ai nostri lettori quali sono attualmente i tuoi impegni e accennarci al tuo ultimo libro “ Tu cabello es la frontera ”?

Mi chiamo Jesús Esquivel, sono corrispondente a Washington per la rivista settimanale messicana “ Proceso “ e lavoro anche per il programma radiofonico Grupo Radio Centro e il programma televisivo La Octava.

Lavoro da 32 anni come corrispondente nella capitale degli Stati Uniti, sono accreditato alla Casa Bianca e ho scritto diversi libri, cinque in tutto, sulle problematiche legate al narcotraffico e ultimamente ho pubblicato un romanzo che cerca di spiegare la vita nella frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, poiché lì, si convive quotidianamente con la problematica della legalità e dell’illegalità. Il romanzo s’intitola “ Tu cabello es la frontera ”.

Conosci molto bene le problematiche legate al narcotraffico messicano e colombiano e hai scritto diversi libri in merito. Hai voglia di raccontarci in che modo ti sei avvicinato a questa tematica?

Sì, certo. Negli ultimi 18 anni del 2000 circa, iniziò ad aumentare in Messico il numero degli omicidi collegati al crimine organizzato, il quale finora era incentrato sul trasporto di droghe o sul traffico di droghe verso gli Stati Uniti. Dopo che in Colombia furono eliminati importantissimi cartelli della droga come quello di Pablo Escobar a Calì, in Messico aumentò il traffico di droga per poter soddisfare la grande richiesta da parte degli statunitensi di cocaina, eroina, e altre droghe sintetiche. Tutto ciò provocò un’esplosione delle attività criminali in Messico soprattutto alla frontiera del mio paese con gli Stati Uniti.

Per ovvi motivi e come reporter, cominciarono a mandarmi a coprire la zona più problematica e iniziai a stabilire una serie di contatti con funzionari delle agenzie federali degli Stati Uniti, come la DEA (Drug Enforcement Administration), l’FBI e anche con funzionari del Messico, per cercare di raccogliere le informazioni che mi aiutassero a capire cosa stesse succedendo in Messico e perché avvenivano così tanti omicidi. La mia prima motivazione fu quindi quella di cercare di scoprire cosa accadeva in termini di violenza in Messico e anche quali erano le sue problematiche,soprattutto tra il 2006 e il 2012. Questa violenza aumentò in modo esponenziale, ci furono in quel periodo più di 100.000 omicidi legati al narcotraffico verso gli Stati Uniti da parte di diversi cartelli che crebbero anche di numero, senza contare le decine di migliaia di desaparecidos a cui fu attribuita la violenza generata dal trasporto di droghe e dalla diversificazione di attività illecite che eseguirono i membri dei gruppi criminali come il cartello di Sinaloa, Los Zetas, il cartello del Golfo, il cartello di Juárez e il cartello di Tijuana. Queste organizzazioni non erano solo coinvolte nel narcotraffico verso gli Stati Uniti ma anche verso l’Europa.

Ho letto il tuo penultimo libro “ Los narcos gringos ” in cui presenti un’interessantissima e inedita radiografia dei narcos gringos, cioè i narcotrafficanti statunitensi di cui finora non si sapeva nulla. Perché trattare questo argomento? E in che modo ti sei organizzato per portar avanti le tue ricerche?

Il libro tratta delle differenze che caratterizzano i narcos gringos, che sono molto diversi dai narcos messicani. L’idea di dedicarmi a questo lavoro nasce dal fatto che di fronte alla problematica del narcotraffico tra Messico e Stati Uniti, si considerano sempre i messicani come l’elemento negativo, viene affibbiato loro il ruolo del cattivo. Si crede che siano loro i responsabili e che riempiano di droghe le strade degli Stati Uniti, mentre le autorità statunitensi – diversamente da altre nazioni – hanno fatto poco nell’ambito della salute e della prevenzione per contrastare l’enorme consumo di droghe. E’ logico pensare che, varcata la frontiera sud degli Stati Uniti, le droghe non vengano trasportate solo per raggiungere poche città come New York, Chicago, San Francisco. Ciò significa obbligatoriamente che ci sono persone statunitensi che ne organizzano un trasporto capillare; si tratta dei cosiddetti brokers. Era quindi logico immaginare che ci fossero anche molti brokers statunitensi coinvolti nel traffico di droghe.

Mi sono quindi messo in contatto con le agenzie federali statunitensi, la DEA, l’FBI e anche l’ICE (Immigration and Customs Enforcement) e infine con il dipartimento di sicurezza e intelligence. Sorprendentememte, i funzionari a cui ho fatto delle richieste hanno messo a mia disposizione – e anche dei miei lettori – moltissimo materiale, dossier e registrazioni e mi hanno mostrato gli scenari degli statunitensi coinvolti. Inoltre, mi hanno fatto notare che ogni giono, negli Stati Uniti, avvengono migliaia di arresti di persone coinvolte nel traffico di droghe. Si tratta di un delitto federale con una condanna di fino a un minimo di 10 anni per spaccio di cocaina da mezzo grammo a una tonnellata. E’ una legge tuttora vigente. E così, mi sono messo a leggere migliaia di dossier su arresti e processi avvenuti in tutti gli stati federali d’America. Ho iniziato a indagare per cercare di capire se in quel periodo vi fossero gruppi criminali come i cartelli messicani o se ci fosse anche il nome di qualche criminale che spiccasse come nel caso di Pablo Escobar in Colombia o del Chapo Guzmán in Messico. E mi sono accorto che non era così, perché gli Stati Uniti sono una specie di narcotraffico al dettaglio. Lo spaccio di droghe al dettaglio: ecco la differenza con il Messico.

So che hai scritto un libro sul processo del Chapo Guzmán “ El juicio: crónica de la caída del Chapo “

e che sei stato l’unico giornalista messicano a poter assistervi. Hai voglia di raccontarci cosa ha significato per te esserne stato il corrispondente?

Sono stato l’unico corrispondente messicano ad assistere a tutte le udienze. C’erano anche altri giornalisti stranieri, ma nessuno di loro è andato a tutte le udienze del Chapo Guzmán. Fu un processo giudiziario molto importante per il Messico e anche per me personalmente come giornalista dopo aver lavorato per tanti anni sul tema della droga e del narcotraffico. La notorietà, la fama del Chapo ha superato i continenti di questo pianeta e sapevo che durante questo processo le agenzie federali degli Stati Uniti sarebbero venute a conoscenza di molti dettagli sulle operazioni del traffico del cartello di Sinaloa capeggiato dal capo Guzmán, sui casi di corruzione da parte del governo messicano, della polizia messicana e anche quella statunitense.

I procuratori incaricati del caso presentarono diversi testimoni e li addestrarono nelle risposte da dare alle domande fatte da loro stessi, dalla difesa del Chapo Guzmán e dai giudici. Questi testimoni non erano altro che agenti statunitensi, ex-narcotrafficanti o narcotrafficanti a cui, in cambio di una riduzione delle condanne, persino in cambio della libertà, chiedevano loro di contribuire a denunciare el Chapo, a incriminarlo perché venisse dichiarato colpevole ed è ciò che è successo. E lì, si presentarono non solo narcotrafficanti, bensì assassini confessi come Juan Carlos Ramírez Abadía chiamato anche el Chupete; un colombiano che di fronte allo stupore dei giurati dichiarò di aver ordinato gli omicidi di centinaia di persone e di aver anche ucciso una persona sparandole in faccia con la propria pistola. Anche così, el Chupete poté tornare in libertà grazie al suo aiuto nell’incriminazione del Chapo.

Questa dicotomia ci mostra l’altro volto degli Stati Uniti, del suo sistema giudiziario corrotto; perché per me si tratta di corruzione; è stato perdonato un delinquente pur essendo un assassino confesso, per condannarne un altro che ha ottenuto popolarità per aver deriso le autorità statunitensi con le sue fughe che non riuscirono a impedire. E così, ci attribuiscono la responsabilità dell’enorme consumo di droghe in America, mentre si tratta prutroppo di una faglia, di una mancanza del governo federale. Per ricontestualizzare, muoiono attualmente tutti i giorni negli Stati Uniti 137 persone per overdose causate soprattutto dal consumo di sostanze sintetiche, metanfetamine che vengono diluite in una sostanza letale chiamata fentanile, molto in voga anche in Europa.

Poco o nulla si sa in Europa delle continue ingerenze da parte degli Stati Uniti in Messico, Venezuela e Colombia nell’ambito del narcotraffico. Lo puoi spiegare ai nostri lettori?

Inizierò con il Messico. Dal 1973 anno in cui fu creata la DEA, gli Stati Uniti portarono avanti una strategia internazionale di collaborazione, come la chiamavano loro. Si tratta in realtà di un’ingerenza indiretta che combatte il crimine organizzato e grazie a questi accordi è riuscita a introdurre nei territori di questi paesi latinoamericani, dall’Argentina al Messico i suoi agenti della DEA, del FBI, del dipartimento di sicurezza interna e della CIA per combattere il narcotraffico. Ciò che fanno è scambiarsi delle informazioni d’intelligence con le autorità in Messico, ma sempre con molte riserve: gli agenti federali statunitensi che vanno all’estero e che iniziano a contrastare il narcotraffico, ebbene, l’unica cosa che interessi loro è fermare i carichi di droghe e non necessariamente portare a termine delle catture. Per farlo, comprano informazioni e anche questa è corruzione; danno denaro contante a dei criminali a condizione che li aiutino a fornire infomazioni. I numerosi tradimenti sono all’ordine del giorno così come succede con la mafia italiana; si tradisce la propria organizzazione criminale per cercare di salvare la propria pelle, per non essere arrestati. E proprio nel caso del Messico, ci sono 55 agenti della DEA che tutti i giorni mandano rapporti a Washington sulle loro attività.

Per quanto riguarda il Venezuela, occorre sapere che quando Héctor Chávez giunse alla presidenza, espulse tutti gli agenti federali degli Stati Uniti. Ora, è storicamente riconosciuto il fatto che i territori in Sud America vengono usati dai narcotrafficanti colombiani e dai guerriglieri per movimentare le droghe via mare e via aria verso il Centro America e inviarli in seguito in Messico e negli Stati Uniti passando dai Caraibi. Quindi cos’è successo in Venezuela? Siccome gli Stati Uniti non hanno approvato le politiche attuate prima da Héctor Chávez e poi da Maduro in questo senso, hanno accusato il presidente venezuelano non solo di narcotraffico ma anche di terrorismo e ciò per portar avanti sia le loro strategie contro il narcotraffico che i loro obiettivi politici.

In Centro America è molto diverso perché in mancanza di risorse econonomiche, i governi di questi paesi così piccoli accettano senza reclamare gli interventi degli Stati Uniti, per combattere il narcotraffico. Commettono una serie di atrocità nell’ambito dei diritti umani in nome della lotta contro il narcotraffico – così come è stato riportato in Guatemala, in Honduras o in Nicaragua -, azioni che coinvolgono direttamente agenti federali degli Stati Uniti.

In Colombia la prospettiva è cambiata molto da quando hanno pianificato il Plan Colombia. Gli Stati Uniti trascinano per mano il governo di questo paese soprattutto nell’eradicazione delle coltivazioni di foglie di coca e fanno la stessa cosa in Perù e in Bolivia. E lì, la società colombiana la vede diversamente, soprattutto perché è stata molto colpita dagli atti di narcoterrorismo guidati da Pablo Escobar nella decade degli anni ’80 quando non solo assassinò un candidato alla presidenza, ma attaccò anche direttamente elementi del congresso colombiano e la Suprema Corte. Terrorizzò non solo tutta la cittadinanza colombiana, ma anche tutto il continente.

Infine, so che il produttore e regista messicano Gastón Pavlovich ti ha contattato per due progetti di film. Di cosa si tratta esattamente?

Quando uscì il mio libro sul processo del Chapo il cui titolo è “ El juicio: crónica de una caída ”, mi contattò Gastón Pavlovich, uno dei produttori del film “ Irishman “. Mi disse che Hollywood era interessata a portare sul grande schermo il mio libro sul processo del Chapo, ma non incentrandolo sul processo, bensì sul ruolo dei procuratori e spiegare – con un film – agli statunitensi il loro ruolo e come l’America dissimula la propria corruzione con il narcotraffico da un’altra prospettiva per portar avanti i suoi obiettivi non solo giudiziari ma anche politici. Non si parla mai di ciò negli Stati Uniti. Non solo nessuno ne ha mai fatto un film, ma non esistono indagini investigatrici gionalistiche sulla corruzione nel sistema ufficiale statunitense con il narcotraffico. Mentre questo è l’argomento che ho trattato. Mi proposero anche di sviluppare una serie basata sul mio libro “ Los narcos gringos “ per sottolineare il ruolo dello statunitense nel narcotraffico e io tratto proprio di questo e ne parlo. Siccome adesso vanno di moda le serie sui narcotrafficanti, si potrà capire meglio il mio lavoro. I tempi sono maturi.

C’è una serie televisiva intitolata “ ZeroZeroZero “ tratta dal libro di Saviano sul traffico di cocaina che coinvolge messicani e statunitensi soprattutto con la mafia italiana. Non ho letto il libro di Saviano, ma mi sembra di capire che molte cose di cui narra nella sua opera non siano proprio fedeli. In primo luogo perché sembra che esageri il ruolo di molti narcotrafficanti messicani: essi non agiscono allo stesso modo della mafia italiana. La maggior differenza consiste nel modus operandi e nell’esportazione della cocaina dal Sud America verso l’Europa e gli Stati Uniti. Senza voler squalificare il lavoro di Saviano, che peraltro non conosco personalmente, non oserei scrivere un libro sulla mafia italiana essendo messicano e senza conoscere la realtà dell’altro paese. E così che io ho affrontato il tema dei narcos gringos; sono messicano, vivo negli Stati Uniti da 32 anni e ho frequentato e lavorato molto alla frontiera messicana.

(Francesca Blache)

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