Charlot in “Tempi moderni”, dopo aver passato la giornata ad avvitare bulloni, uscendo dalla fabbrica prosegue freneticamente la sua attività, cercando cose da serrare, come i bottoni del vestito di una passante.
Gli psicologi chiamano tale fenomeno effetto Tetris, dal nome del videogioco: dopo aver giocato a lungo a Tetris si ha l’impulso momentaneo di capire come incastrare gli oggetti nella realtà.
È un fenomeno molto comune, che abbiamo sicuramente già provato tutti: magari dopo aver giocato a lungo a dama abbiamo avuto l’istinto di scavalcare gli oggetti con ciò che avevamo in mano, oppure dopo aver camminato scalzi sugli scogli abbiamo sentito, a letto, gli scogli sotto i nostri piedi, o ancora dopo una verifica di matematica ci sarà venuto in mente per un attimo di dover trovare il “risultato” delle frasi in latino.
La ragione del fenomeno è sostanzialmente l’incongruità tra ambiente e società, tra la realtà e il nostro modo di intenderla: il Tetris ci impone un mondo ludico diverso dal nostro, che richiede un modo diverso di intendere la realtà. Una società in cui non ci sono più animali, nuvole, sedie… ma “oggetti da incastrare”.
Più a lungo e più intensamente ci immergiamo in questo mondo e più la nostra mente cambierà, temporaneamente, il modo di intendere le cose, per ragioni di rapidità decisionale e di risparmio energetico.
Per questo, finito di giocare, per un certo periodo potremmo subire l’effetto Tetris: continueremo a intendere la realtà come se fosse il mondo del Tetris.
Io penso che tale fenomeno debba però essere chiamato diversamente, con un nome più semplice, elegante e familiare, meno tecnico, goffo e gergale, ma pienamente coincidente con esso nell’essenza: lutto.
Un amico, un parente, lascia in noi una profondissima impressione, che influenza il nostro modo di intendere il mondo; la nostra mente è abituata ad averlo lì, presente, e questo anche quando non c’è più: avremo così l’impressione di scorgerlo in ogni stanza quando entreremo in casa sua, crederemo di vederlo in un passante, la voce di un estraneo ci illuderà per un istante che sia lui.
Finché queste impressioni si ripetono siamo in lutto: nei primi giorni sono intensissime ma con gli anni scompaiono. Poco per volta la nostra mente si abitua alla realtà per quella che è; impara a intenderla in un modo diverso, più efficace.
Quindi il lutto non è solo riferito alle persone né è solo un fenomeno triste, come si crede di solito: si può essere in lutto per una persona defunta, per una persona lontana, per un lavoro in fabbrica, per un videogioco, per il mare (il mal di terra è lutto del mare), per la povertà, per il rumore della città…
Occorre allora pure distinguere bene il lutto dalla nostalgia: il lutto è l’impressione, alla quale poi può seguire o meno la nostaglia. Ad esempio, se è morta una persona a noi cara il suo lutto può farci piangere, perché, dopo una breve illusione di quella che per la nostra mente è la società, avremo di fronte la triste realtà: il lutto ravviva la nostalgia; ma non è detto che sia sempre così, in certi casi al lutto può seguire un senso di leggerezza, ad esempio quando, finita la guerra, abbiamo ancora l’automatismo di doverci riparare dai cecchini quando ci avviciniamo a una finestra: la spalanchiamo ridendo e guardiamo il cielo.
Se riusciamo a vincere il lutto della guerra.
Il sogno stesso potrebbe essere definito il lutto della veglia: il sonno abbassa la nostra percezione dell’ambiente, della realtà, e allora la mente fluttua tra i suoi lutti.
L’effetto Madeleine è invece semplicemente l’emersione di un lutto che credevamo sopito, ma che una particolare esperienza (non necessariamente olfattiva) riporta alla luce.
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